Venerdì. Faccio due passi in centro. Gabriella sta lavorando in museo per una mostra archeologica. Passo da quelle parti più o meno nell’ora in cui sta finendo il turno. Quando sono quasi all’ingresso le telefono: ha appena finito posso aspettare? Certo che posso.
Quando esce ci salutiamo e l’accompagno a casa. Mentre si cambia d’abito, la sua coinquilina mi intrattiene. Poi beviamo un caffè macchiato preparato con una curiosa caffettiera a forma di mucca.
Finalmente possiamo raccontarci cose. È ben più di un anno che non ci vediamo. Tre mesi fa ha perso suo padre. La cosa peggiore, dice, è vedere come mote persone che credeva amiche si siano allontanate proprio quando avrebbe avuto bisogno di un sostegno. Mi sono sentito in colpa e gliel’ho detto. “Ma tu non lo sapevi”. Sarà, ma non mi considero assolto.
Sabato. Sveglia presta e mattinata a dipingere. Se sai usare bene le pennellate di bianco, puoi ottenere effetti stupefacenti. Dopo varie sperimentazioni da principiante assoluto, ero soddisfatto e rilassato. Sera al pub per una birra. Anzi, due.
Lunedì entro nel nuovo ufficio. Ho potuto solo programmare il lavoro dei prossimi giorni. Gli elettricisti stanno terminando il cablaggio. Amministrerò la rete di computer di un piccolo ufficio con meno di dieci persone.
Mercoledì mattina sono andato al colloquio per il lavoro che avevo già deciso di rifiutare. Bastano pochi minuti e sto quasi litigando con il tizio che mi ha chiamato. Gli ho soltanto detto che ho avuto un’altra offerta migliore della sua.
“Ma quindi non le interessa più questo lavoro?”
“Non ho mai detto che m’interessava, ho detto che avrei scoltato la proposta”
“E allora cosa è venuto a fare?”
“Avevamo un appuntamento”
“Ma poteva avvertirmi prima”
Francamente, anche lui poteva avvertirmi prima, la settimana scorsa, quando ha rimandato l’appuntamento cinque minuti prima dell’orario stabilito, ma questo non glielo dico. Lui invece ripete la stessa domanda: “Allora cosa è venuto a fare, soltanto perché avevamo un appuntamento?”
Non ho voglia di discutere sul perché uno va agli appuntamenti di lavoro. Mi sembra una obiezione idiota.
“Era un colloquio di lavoro, volevo sentire la proposta: di solito di fa così”
“Mi dica quanto chiede”
“Non servirebbe, mi è stata offerta un’assunzione: lei può fare altrettanto?”
“Assolutamente no”
“Allora abbiamo finito. Arrivederci”
“Arrivederci”.
Stretta di mano. Cioè, io ho stretto, lui aveva il tono muscolare di un tortellino scotto. E anche l’umidità. La tristezza negli occhi. Esco, fuori c’è il sole, mi viede da ridere.
Di fronte al luogo dove è avvenuto il colloquio c’è un centro commerciale. Mi fermo per qualche acquisto. Ad una delle casse dell’ipermercato c’è Veronica. È il suo primo giorno di lavoro qui. Mi metto in fila ed al mio turno la saluto.
Mentre vado a casa mi chiama il nuovo datore di lavoro che vuole sapere come sia stato il colloquio. Gli dico che ho rifiutato. Lui pare soddisfatto.
Alla sera vedo Christian e Andrea per chiacchierare e bere. Decidiamo di istituire una ricorrenza mensile da celebrare allo stesso modo. Il diciassette di ogni mese. Non siamo superstiziosi.

“Il tono muscolare di un tortellino scotto”… mi piace questa frase… rendi bene l’idea
“Leonardo ha scritto che un pittore dovrebbe iniziare ogni tela con una stesura di nero, perchè in natura le cose sono tutte nere tranne quando sono esposte alla luce. La maggior parte dei pittori fa l’opposto, iniziano con una stesura di bianco e per ultimo aggiungono le ombre… Le sole cose che gli altri sanno di noi sono quelle che noi stessi permettiamo di vedere”