Il quindici luglio

Un anno.
Dodici mesi, come dodici giorni, sono passati. Mi vien da chiedermi dove siano andati. Sembra ieri.  sembra talmente poco tempo che ancora oggi ho l’impressione di sospensione di quei giorni. Era aprile e da lì alla metà di luglio del 2005 l’ospedale è stato il nostro punto di ritrovo.

Curioso che proprio l’ospedale mi sembri lontanissimo, ora. Invece Fabio è ancora vicino. Tutti lo sentiamo vicino, come quegli ultimi giorni.

Sapevamo come sarebbe finita, ma nessuno era disposto a crederlo possibile. Era una situazione difficile da affrontare, da maneggiare, da condividere. Era difficile viverla.

Fabio era una persona attiva. Gran lavoratore ma sempre sorridente con tutti. Era l’amico ideale per chiunque lo conoscesse. Non posso che ricordarlo pronto e disponibile, anche a mandarti a quel paese se ne avevi bisogno. Con lui mi sentivo bene.

Non ci vedevamo più tanto spesso, per colpa del lavoro, delle distanze che aumentano, vivendo vite in direzioni diverse. Perù, nelle giornate più grigie e in quelle colorate, ci scambiavamo una telefonata per non perderci.
E poi, almeno una volta l’anno, c’era la nostra cena, con gli altri del gruppo. Oppure, qualche volta, da soli, a parlar di tutto, donne, cinema, politica, universo e destino. Tutto insieme.

L’ultima volta, l’ultima uscita insieme, è stata in occasione del mio compleanno, solo sei mesi prima. Già allora diceva di avere qualche disturbo digestivo. Nelle settimane che seguirono il disturbo si è rivelato essere altro. Ho saputo delle prime operazioni dalla sua stessa voce, al telefono. Poi le notizie parlarono di miglioramento, con le promesse di rivedersi. Un paio di mesi ancora.

Un giorno ero fuori città per lavoro. Gli ho telefonato dopo pranzo. Aveva difficoltà a parlare. L’ho attribuito alle medicazioni, in qualche modo. Non potevo pensare che invece.

Era in ospedale. Mi sono allarmato. Ho contattato gli altri per avere notizie più precise. Poche.

Stava male. Da allora ci siamo organizzati in turni per non lasciarlo mai solo e per non affollare il reparto. Ho potuto vederlo nella sua stanza soltanto poche volte, poi c’è stato l’aggravamento. I medici non hanno potuto fare molto. Il trasferimento in terapia intensiva. Noi sempre comunque là. Anche se non si poteva vederlo, non essendo parenti stretti, non siamo stati comunque capaci di andare a casa.
Aspettavamo ogni familiare che usciva dalla sua camera per sapere che era sveglio, cosciente o meno, sedato, dormiente, sofferente. Là abbiamo appreso il pessimismo dei medici, abbiamo vissuto e condiviso la nostra incredulità.

Poi gli ultimi giorni.
Attendevamo l’ultima notizia da un momento all’altro. Ricordo quanto abbiamo vagato intorno all’ospedale, anche di notte, smarriti.
Quella sera sono andato via per una rapida cena a casa. Sarei tornato subito dopo. Il piatto sporco nel lavabo, l’ultimo sorso di vino, il telefono che squilla. Una sola parola.

E’ successo.

Ci vediamo là, rispondo.

Chiudo la conversazione. Mi appoggio al muro della cucina. Si bagnano. Poi il cuscino e l’asciugamano. Calmati i singhiozzi, devo fare delle telefonate. Mi bagno la faccia.

All’ospedale ci siamo tutti.

Poche ora prima, i medici avevano lasciato entrare, due alla volta, alcuni di noi. Avrei dovuto entrare per ultimo, ma ho lasciato entrare Lorenzo. Pensavo che avrei avuto un’altra occasione per salutarlo.

Un anno.
Ricordo ogni istante di un anno fa.

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