Sono stato volontario per quasi nove anni in una nota associazione. E il mio contributo, a quanto pare, è stato notato e apprezzato. Lo dico perché a un certo punto il coordinatore regionale uscente mi chiese di prendere il suo posto. Pensavo di compiere un gesto responsabile e corretto nei confronti di tutti, rifiutando l’incarico ufficiale. Invece, la storia della mia uscita da quella associazione è cominciata proprio da lì.
1. Il clima
Lui lo chiameremo Matteo. Diceva che per esperienza, competenze e comportamento ero adatto all’incarico. Io gli ho fatto presente che abitavo a 90 km dalla sede e in caso di necessità non sarei potuto essere presente in breve tempo. Offrii comunque il mio supporto e proposi di affidare l’incarico a una socia più giovane, che chiameremo Giulia. A lei mancava l’esperienza, ma affiancandola avrei alleggerito i suoi impegni. A me sembrava una buona idea e gli altri consiglieri furono d’accordo. All’unanimità.
Io mantenni solo l’incarico di consigliere regionale, ufficialmente, assumendo però responsabilità da vice-coordinatore. Avevo chiesto io di non inventare nuove cariche appositamente per me.
I miei compiti erano in parte organizzativi – c’era una riorganizzazione da completare – e in parte tecnici. Lavorando da tempo con WordPress, ero incaricato del sito web del gruppo (e quello della rivista online nazionale). Giulia mi informava delle comunicazioni che riceveva e quando necessario suggerivo o consigliavo.
Per qualche mese è filato tutto liscio, poi le cose hanno cominciato a cambiare. Giulia aveva smesso di tenermi informato e certe volte avevo perfino l’impressione che volesse tenermi lontano da alcune attività del gruppo. Vivendo a distanza, scoprivo solo in riunione di iniziative che gli altri avevano organizzato comunicando via email senza usare il gruppo di mailing del gruppo.
2. Il primo scontro
Uno dei consiglieri, chiamiamolo Davide, che si occupava con me del sito, mi aggiunse per errore ai destinatari di una di queste email. Scoprii così che era in corso da due giorni uno scambio di messaggi su una questione tecnica relativa al sito di cui ero io il responsabile. Si trattava, peraltro, di una questione già discussa durante una riunione.
Il punto era che Giulia aveva chiesto di modificare la decisione condivisa insieme e verbalizzata. Il suo ordine era stato impartito di nascosto dai consiglieri, direttamente a Davide, che non aveva saputo rifiutare. Questo aveva causato alcune conseguenze che stavano cercando di risolvere.
Non trovavo alcun senso a quelle email, né riuscivo a capire cosa avesse intenzione di fare Giulia e perché. Le telefonai per chiedere chiarimenti. Alle mie domande, si agitò: “Perché ho deciso così”, “le decisioni prese in riunione si possono cambiare”, fino a “non rompere le palle”.
La violenza di quelle parole fu un colpo che illuminò in modo tutto diverso gli episodi dei mesi precedenti cui non avevo dato importanza. E fu riflettendoci che mi resi conto di cosa stavano facendo quei suoi amici, li chiameremo Manuela e Enrico.
Erano entrati nel gruppo da poco e stavano prendendo molto spazio a scapito degli altri consiglieri. Nelle email, in effetti, Enrico stava di fatto gestendo il sito a modo suo, anche senza saperne nulla e senza alcun titolo, dando ordini a Davide e demolendo sistematicamente le mie indicazioni tecniche.
3. L’estraneo
Nelle settimane successive la situazione divenne sempre più tesa. Io chiedevo cosa stesse succedendo, lei rispondeva piccata ma intanto continuava a impedirmi di partecipare alla vita del gruppo.
I miei interventi durante le riunioni venivano assai ridotti o del tutto cancellati nei verbali, i problemi organizzativi che segnalavo da mesi non vennero mai portati in discussione e tutto il lavoro che svolgevo per l’associazione veniva ignorato.
L’episodio che mi colpì di più fu però una serata di svago per il gruppo locale, organizzata da Manuela, cui parteciparono praticamente tutti. Io ne venni a sapere qualcosa solo dalle allusioni nei post dei social network.
Gli altri consiglieri? Sono stati vigliacchi, nella migliore delle ipotesi.
Cercai di spiegare a qualcuno quello che succedeva. Vedevano, ammettevano, ma poi minimizzavano o negavano le conseguenze evidenti. Dicevano che in fondo il verbale non doveva contenere tutto ciò che avveniva in riunione. Dicevano che se ne poteva anche riparlare la prossima volta. Dissero perfino che i problemi personali tra me e Giulia non erano un problema del gruppo, insinuando nemmeno troppo velatamente un qualche mio gesto all’origine di ciò che stava avvenendo.
Non ho mai accettato l’accusa implicita che mi lanciavano perlando di problemi personali. Impedire la discussione in una riunione non è un problema personale. Falsificare il verbale delle riunioni, non è un problema personale.
In quel momento, non sapevo ancora dei pettegolezzi su di me messi in giro dalla coordinatrice e confermati dalla sua amica. Vedevo soltanto che quelle persone, dopo tanti anni di collaborazione e di finte amicizie, mi voltavano le spalle per non vedere e non dover fare qualcosa.
Delle menzogne che le due stavano fabbricando mi accorsi una sera subito dopo essere rincasato da una riunione. Era quasi l’una di notte (mi ci voleva circa un’ora per coprire la distanza). Vidi il post di Giulia con allusioni chiare e i commenti volgari di Manuela. La mattina dopo, entrambe mi avevano bloccato, evidentemente per impedirmi di leggere le loro meschinità.
Tirando le somme, mi trovavo, dopo tanti anni di impegno e migliaia di chilometri sprecati, come un estraneo. Avevo voglia di uscire immediatamente da quel gruppo. Ma scelsi di aspettare e non fuggire. Pensavo che la verità dovesse emergere – questa associazione ha fatto del controllo dei fatti la sua bandiera e in questa storia non sono certo io a raccontare menzogne.
E poi, negli anni avevo costruito rapporti personali e di collaborazione con i volontari di tutti gli altri gruppi locali. Non volevo buttar via tutto senza provare a cambiare quella situazione.
4. La spudoratezza
Dopo ben cinque mesi di censura, ero riuscito a ottenere da Giulia la promessa di portare in discussione alcune questioni su cui lavoravo da parecchio tempo. “Ne parliamo nella prossima riunione”, assicurava. Sarebbe stata anche l’ultima riunione prima della pausa estiva.
La mattina dopo, Giulia inviò una comunicazione con cui annunciava che “siccome non ci sono argomenti importanti da discutere” invece della riunione ci saremmo ritrovati in pizzeria per salutarci prima delle ferie.
Le telefonai immediatamente e litigammo. “Lo sapevo che l’avresti presa male”, come se avessi potuto prenderla a ridere.
Ottenni solo che la cena si sarebbe svolta in sede, dopo una breve riunione. Dovetti ingoiare il rospo e accettare il compromesso. Non volevo dargliela vinta andandomene così.
Prevedendo altri colpi bassi, scrissi dettagliatamente tutto quanto avrei detto, ne stampai copie da distribuire, ne inviai una copia a Giulia da allegare al verbale e alla mailing list collettiva.
La sera della riunione spiegai sinteticamente la questione e al termine, a parte qualche chiarimento e qualche piccola osservazione, non ci furono critiche e la proposta fu approvata all’unanimità.
Giulia non disse nemmeno una parola.
Il mattino dopo inviò il verbale della riunione che non conteneva nemmeno una traccia del mio intervento, né del documento che avevo prodotto. Risultava soltanto che io avevo espresso una osservazione tecnica sul sito web di cui si sarebbe occupato Davide.
Chiesi immediatamente via email una rettifica a quel verbale che era sostanzialmente un documento falso. Enrico intervenne sostenendo che ero un bugiardo e non era necessario modificare alcunché. Si accese una discussione violenta a cui Giulia non ritenne di prendere parte.
5. Il raccapriccio
Ero offeso personalmente dalla sua presa in giro e scandalizzato come socio e consigliere, perché falsificare in quel modo un documento era una evidente violazione.
La cosa peggiore non furono nemmeno le menzogne di Enrico, ma il silenzio di tutti coloro che, presenti la sera prima, non erano intervenuti a ristabilire la verità.
Non mi ero mai sentito tanto lontano da quelle persone, nemmeno quando ero nuovo e ancora non conoscevo nessuno.
Di fatto, ero già fuori dal gruppo. Non intendevo chiudere i conti senza aver fatto abbastanza rumore. Dovevo mettere Giulia di fronte alle sue responsabilità e di fronte a chi poteva intervenire.
Decisi di scrivere ai responsabili nazionali che facevano parte anche del gruppo locale. Sarebbero intervenuti per ristabilire l’ordine oppure avrebbero scelto la via più facile e “credere” alle palesi menzogne.
Nell’email descrissi sommariamente gli episodi più inquietanti e incomprensibili che si erano verificati, compreso l’ultimo. Erano tutti provati da email presenti nell’archivio della mailing list.
Spiegai che non si era mai trattato di una questione personale e che parlavo dei comportamenti della coordinatrice tenuti nello svolgimento del suo incarico. Chiedevo delle spiegazioni e per correttezza aggiunsi anche Giulia tra i destinatari in copia.
Fu lei che rispose, quasi immediatamente.
Non mi parlava da mesi e nel vedere il suo nome come mittente provai subito sollievo. Pensavo che, di fronte a prove precise, avesse accettato di spiegarsi. Pensai che sarebbe stato meno difficile lasciare il gruppo dopo un chiarimento.
Confesso che fui sorpreso quando iniziai a leggere. Era una sequenza impressionante di bugie clamorose, volgari, infamanti e perfino raccapriccianti sul mio conto. Lo faceva senza alcuna vergogna, di fronte ad altre persone che conoscevano i fatti reali.
Leggevo e pensavo che con quelle offese, quelle calunnie, quel darmi istericamente dello “squilibrato” e del “disgustoso” senza offrire alcuna spiegazione del suo comportamento segnassero la fine immediata del suo mandato. Nessuno sano di mente – mi dicevo – potrebbe lasciare una persona del genere a coordinare altre persone.
Dopo qualche ora, Matteo scrisse una risposta capolavoro di omertà e ipocrisia.
Tacque sul comportamento che avevo denunciato – non negabile – e tacque sulla violenza verbale del messaggio di Giulia.
Invece mi ordinava di tacere senza condizioni su tutta questa storia: “di questa cosa non se ne deve parlare”, “Gli altri non devono sapere nulla di tutto questo”, “La cosa si chiude qui, chiaro?”, “Non dirai nemmeno una parola, altrimenti hai finito di far parte di questo gruppo”.
Le sue minacce non mi toccavano.
Avevo già smesso di far parte del gruppo.
Il messaggio mi colpiva invece perché stava difendendo quella violenza ingiustificata, in modo plateale e mi imponeva una censura che non aveva altro scopo che nascondere i fatti. L’opposto dei principi alla base dell’associazione. Aggiungeva di aver consultato gli altri destinatari prima di scrivere.
Avevo difficoltà a capire cosa stesse accadendo. Scrissi una risposta in cui ribadivo la mia richiesta di spiegazioni, che era e continua a essere legittima. Nessun altro intervenne. Ormai li consideravo tutti complici. Nessuno, ancora una volta, aveva dimostrato abbastanza dignità da spiegarmi alcunché. Mi chiesi a lungo se non valesse la pena agire legalmente per la diffamazione di cui ero stato oggetto.
6. L’abbandono
L’email di Matteo mi aveva convinto a lasciare l’associazione. Ne ero disgustato.
Pochi giorni dopo fu segnalato un problema sul sito web nazionale di cui curavo la manutenzione.
Io ero impegnato al lavoro, ma risposi quasi subito che a seguito di un grave episodio avvenuto nel mio gruppo locale ero costretto a lasciare tutti gli incarichi nell’associazione. Al momento non era il caso che continuassi a occuparmene e sarebbe stato meglio contattare il responsabile nazionale – che chiameremo Marino.
Anche lui era tra i destinatari delle mie denunce, uno di quelli che avrebbe potuto evitare gran parte degli eventi spiacevoli accaduti e che invece ha taciuto. Lo considero uno dei maggiori responsabili. Mi sembrava fuori dal mondo chiedermi di continuare a lavorare gratis per lui.
Dopo quella email di Matteo, non ho coinvolto “gli altri” in questo schifo. Non certo per obbedire alla censura quasi mafiosa che aveva voluto impormi.
È stato pudore.
Nel messaggio di Giulia c’erano schifezze così pesanti che mostrarle agli altri avrebbe esposto la stessa Giulia all’imbarazzo di tutti. Mi sarei sentito uno stronzo, francamente.
E comunque, semplicemente, non mi serviva.
A settembre partecipai alla mia ultima riunione. Prima di entrare, sulla porta, Matteo credette necessario avvisarmi che non avrebbe tollerato scenate e che non avrei dovuto toccare l’argomento. Mi vergognai per lui, tanto fu ridicolo.
Durante la riunione mi resi conto che non avrei mai considerato superati gli insulti che la coordinatrice mi aveva rivolto, senza le sue scuse. E lei non sarebbe mai tornata sulle sue malefatte.
Era protetta dagli ipocriti che sapevano tutto e lo nascondevano agli altri presenti. Stavano imbrogliando i loro stessi soci, i volontari.
Seduto in quella sala riunioni provavo quel sentimento straziante di quando sei di fronte a una ingiustizia inaccettabile e non puoi fare niente. E anche un forte senso di nausea. Come si può essere così ipocriti?
Ero entrato in quella associazione perché consideravo importante divulgare il metodo scientifico e la verifica delle affermazioni contro le notizie false e la pseudoscienza. Per rispettare questi stessi valori, dovevo andarmene.
Lì praticavano la censura, la calunnia, la disonestà intellettuale e il tentativo di nascondere i fatti. Io non sono mai stato così disonesto da sentirmi come loro.
7. L’ultimo atto
L’ultimo atto della storia si svolge nella città dove vivo e nella città vicina, otto mesi dopo.
Avevo avuto modo di parlare con alcuni soci che vivevano, come me, lontano da un gruppo locale. Una possibilità prevista dallo Statuto era la costituzione di un nuovo gruppo, anche non legato alla regione. Così, in contatto costante con una responsabile nazionale, che chiameremo Marta, abbiamo provato a costruirne uno, per portare anche nella nostra zona le attività sociali che qui non erano mai arrivate.
Ci abbiamo lavorato per circa sei mesi, arrivando a formare un nucleo organizzato di sei-sette soci e a stendere un programma con degli obiettivi. A questo punto la notizia del nostro lavoro è arrivata al mio ex gruppo locale e alle persone che disprezzavo.
Quel gruppo era ora coordinato da Manuela. Giulia se n’era andata lasciando il titolo alla sua amica.
Rivendicando il controllo di tutta la regione, come unico gruppo ufficiale, costoro hanno bloccato ogni nostra iniziativa. Ci concedevano però di entrare a far parte del loro gruppo regionale e collaborare alle attività che loro avrebbero organizzato.
Era implicito che, data la distanza, non avremmo avuto modo di partecipare a riunioni e alle decisioni operative che sarebbero rimaste loro esclusiva competenza.
Io rilanciai proponendo una collaborazione sulla base di un progetto, in nome degli interessi dell’associazione. Fui attento a chiarire che non avrei mai accettato di tornare nel gruppo che avevo lasciato per ottime ragioni.
Offrivo la collaborazione e un progetto di espansione dell’associazione. Altrimenti sarei uscito del tutto dall’associazione.
Marta era sempre tra i destinatari dei messaggi. Volevo fosse testimone della mia apertura e della loro chiusura. Dovevano essere loro a rompere il dialogo e a darmi l’occasione di una uscita “rumorosa”. Così fu. Rifiutarono perfino di rispondere e imposero le loro condizioni.
Il mio messaggio di congedo era già pronto da giorni, così mi ci vollero pochi secondi a rifiutare.
La prova di forza infantile non m’interessava e la lasciavo a loro. Era un volgare e disgustoso gioco di potere dentro l’associazione che non mi sarei mai abbassato a ingaggiare. Avevo mostrato a Marta la loro meschinità. Poteva ignorarla, ma ora la conosceva. Mi sentivo un po’ come chi osserva dall’alto dei bambini che giocano alla guerra, prevedendo ogni loro mossa.
Io avevo creato un nuovo gruppo di soci: avevo già vinto. Quando ho lasciato tutto, hanno subito cancellato il mio lavoro, danneggiando l’associazione. Hanno perso due volte.
Mi sono chiesto spesso perché certi responsabili nazionali come Marino abbiano impedito l’allargamento dell’associazione per conservare la loro piccola, platonica, supremazia nella regione. Non ho una risposta certa, ma una idea me la sono fatta. Certe persone sono arrivate a una età ormai avanzata senza avere nulla. Non una famiglia, non un figlio, non una carriera decente né aver realizzato qualcosa. Hanno solo l’associazione in cui si sono spesi per decenni e una casa vuota. Perfino gli amici sono solo soci. E allora non sono disposti a perdere nemmeno un centimetro del loro patetico prestigio in quella cerchia ristrettissima. Perché è tutto quello che hanno.
È una spiegazione triste, tutto sommato plausibile.
***
Con un messaggio alla mailing list nazionale, ho salutato i soci perché non ci saremmo più incontrati ai convegni, spiegando sommariamente che lasciavo a causa di cose accadute nel gruppo locale. Poi ho cancellato l’iscrizione e me ne sono andato.
Le belle parole e la solidarietà con cui mi hanno risposto da tutta Italia mi fanno pensare d’aver lasciato un buon ricordo in giro. Tanto mi basta.
Esco da diciannove mesi di fango senza nemmeno una macchia.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto
(Inferno, XXXIV, 68-69)
— gershwin who could ask for anything more

