barbiere - dettaglio mano pettine e cravatta

Il nuovo taglio e la comunicazione

Era una decisione presa da tempo, mancava solo il coraggio di attuarla. Quel sabato mattina, in realtà, si trattò anche di uscire di casa prima delle undici, rinunciando al molto dormire.
Per scansare ripensamenti, mi gettai sotto la doccia ancor prima di prendere il caffè. Le altre operazioni di routine mi restituirono un aspetto sbarbato e accettabile.

In auto mi ci volle la solita mezz’ora. Parcheggiare non fu un grosso problema. La piazzetta davanti al municipio coi rettangoli bianchi disegnati a terra era quella di sempre. La bottega del vecchio barbiere si affacciava sulla piazza a pochi metri di distanza. L’insegna di ferro d’un brutto giallo spento diceva “Salone”. Scesi dall’auto.

Lui era lì, fermo sulla porta come se mi stesse aspettando, mi guardava. Guardava i miei capelli, ne sono certo, valutandone a distanza la lunghezza e il modo in cui l’elastico li teneva legati all’altezza della nuca.

Mi avvicinai salutando con un cenno e un sussurrato buongiorno. Lui sorrise socchiudendo la bocca anziana, sospirando un saluto dialettale quasi incomprensibile. Mostrai d’aver notato il suo interesse tricologico: “Eh, è un po’ che non vengo”, dissi come per caso.
“Quanto sarà, sarà tre mesi…”
Pensai che alla sua età il tempo doveva essersi fatto molto relativo.
“No, ormai è quasi un anno… ed ora è venuto il momento”.

Una volta dentro, mi accomodai sulla poltrona come al solito. Lui mi chiese “come al solito?” A cui risposi “come al solito.”

Per la mezz’ora successiva lui tagliò e pettinò e carezzò le chiome prima di lasciarle cadere. Ogni tanto si prendeva una pausa per guardare sul pavimento le ciocche orfane. Però nemmeno questa volta si trattenne dal fare domande. Le sua domande.
Il modo di parlare di quest’omino che credo abbia almeno 380 anni d’età è in realtà una specia di borbottio biascicato e sussurrato. Ma soprattutto non prevede l’utilizzo di parole italiane.

La conseguenza di ciò è il mistero che si porta dietro da tanti anni il mio rapporto con questo vecchio barbiere della profonda provincia vicentina.
Mentre compie a suo piacimento il lavoro sulla mia testa, parla. Apparentemente seguendo un parcorso verbale che è a metà tra un monologo e un dialogo, dal momento che colgo di tanto in tanto accenti che fanno pensare a domande, come se chiedesse la mia opinione sull’intuizione appena spiegatami.
Il problema è che non ho mai capito nemmeno uno di quei versi inintellegibili in tutti questi anni. E allora, alle sue richieste d’approvazione – che possono variare dal semplice “Eh?” all'”È vero o no?”, con tutte le variazioni possibili – io replico con un cenno del capo. Sembra che a lui basti.

Il vecchio barbiere finì il suo lavoro, indicò lo specchio e si mise a ripetere come un mantra: “Guarda che bel taglio è venuto, son proprio soddisfatto, è venuto proprio un bel taglio”. Quando cominciavo a credere che fosse una frase imparata a memoria per convincermi di saper parlare italiano, tacque. Sorridendo si affacciò fuori dal suo negozio a controllare che non ci fosse qualcuno in piazza.
Non c’era nessuno.
Tornò dentro, mi guardò, disse qualcosa.
“Come?”
Disse la stessa cosa, assunsi l’espressione di chi ha la luce negli occhi e dissi “Non ho capito.” Così lui parlò ancora, stavolta in una lingua che potevo capire.

“Hai la macchina, qui vicino”.
Continuava a non avere senso. Dovevo pagare e andar via, che c’entrave la mia macchina e dove ho parcheggiato?
“Hai la macchina, qui vicino…”

“Stavolta non ti faccio la ricevuta, vai subito in macchina?”
Capivo. Un evasore.

Stavo per protestare. Però… vengo qui da tanti anni, non si è mai comportato così, fra poco andrà in pensione e soprattutto il prezzo di un taglio qui è meno della metà di quanto costa altrove. Chissene, stavolta passi.

Pagai i dieci euro e mi diressi alla macchina “subito” col mio nuovo taglio di capelli. Come al solito.

7 commenti su “Il nuovo taglio e la comunicazione”

  1. Anch’io ricordo con simpatia certi barbieri, che ciacolavano, ciacolavano, ciacolavano, raccontando un sacco di cose, alcune divertenti, altre incomprensibili.
    Però da molti anni non entro più da un barbiere: i capelli me li taglia mia moglie, che si diverte a farlo.
    E d’altra parte io non ho grandi pretese di acconciature speciali: mi basta una roba casual alla frate Tuck, che era il compagno di Robin Hood e degli altri della foresta di Sherwood.

  2. S.q.a.p.d.Irnerio

    E’ bello questo post, anche nel modo che hai di usare la lingua italiana, ma soprattutto nel messaggio che comunica. Mi limito a questo breve giudizio estetico.

    Vorrei però trascrivere qui una poesia spassosissima in vernacolo maceratese/fermano che descrive un negozio di barbiere.
    L’ascoltai tanti anni fa alla radio.
    E’ in tema con il post, l’ho ritrovata in rete:

    LU VARBIERE

    Ce prôa con tutto, per fasse che lira,
    perfino a pijà in gniru a le persone;
    cià un postarellu appena ce se ‘rghira
    e loco nànti cià scritto: Salone.

    Serve quilli che cià, po’ se sta l’ore
    loco la porta sinza fa niente;
    co’ ‘llu càmusciu biancu da dottore,
    co’ la speranza che va lu criente.

    Però a vedellu co’ quella muntura,
    la jente ce sta quasci penzierosa,
    specie a la juintù jé fa paura
    e non se fa la varba più de cosa.

    Un dì servì un signore de rispettu,
    un tipu scunusciutu che passava;
    sinza rraprì de có’ lu ruvinettu,
    sputàa su lu pennellu e ‘nzaponava.

    Quillu a vedé cuscì mollà la crema,
    jé disse chiaro sinza cumprimenti:
    -Ma de’ ste parte usete ‘ssu sistema
    pe’ ‘nzaponà la varba a li crienti? –

    -No, questo, – disse, – è per quilli lontani,
    che quanno paga, è jente che li caccia,
    sulo a li forestieri; a li paesani
    jé se sputa diretti su la faccia. –

    Sennò serve con carma e cià maniera,
    vôle che li crienti scia contenti,
    quanno te raschia cià ‘na ma’ leggera,
    che se te taja manco te lo senti.

    Io ce capì ‘na ‘òta che ce jette
    che come attrezzatura mette voja:
    cià supprimatu, spirutu e pecétte,
    che manco de ‘na sala operatoria.

    Te chède scusa ‘gni ‘òta che te taja;
    ma quello che te fa ‘mpó’ meraviglia,
    cià un gattu, ch’è più grassu de ‘na quaja:
    sta sempre a smiaolà sotto la seja.

    Jé chidì unu fin che vinìa rasu:
    che vô ‘ssu gattu che sta a fa’ ‘ssa lagna?-
    Quissu, – disse, – c’è ‘vvizzu, ‘ncé fa casu,
    se casca li retaji, se li magna.

    (Antonio Angelelli – 1972)

    TRADUZIONE:

    Ci prova in tutti i modi, per fare qualche lira,
    perfino a prendere in giro le persone;
    c’ha un posticino (che) appena ci si può rigirare
    e sul davanti c’è scritto: Salone.

    Serve quei (clienti) che c’ha, poi sta ore e ore
    davanti alla porta senza fare niente;
    con il camice bianco da dottore,
    con la speranza che arrivi il cliente.

    Però a vederlo in quel arnese,
    la gente ci sta quasi pensierosa,
    specie alla gioventù gli fa paura
    e non si fa la barba più per niente.

    Un giorno servì un signore di rispetto,
    un tipo sconosciuto che passava;
    senza aprire affatto il rubinetto,
    sputava nel pennello e insaponava.

    Quello a vedere così bagnare la crema,
    gli disse chiaro senza complimenti:
    -Ma da queste parti usate ‘sto sistema
    per insaponare la barba ai clienti?-

    -No, questo,- rispose, -è per quelli lontani,
    che quando pagano, è gente che li caccia,
    solo per i forestieri; ai paesani
    gli si sputa direttamente sulla faccia.-

    A parte questo serve con calma e ha maniera,
    vuole che i clienti siano contenti,
    quando ti raschia ha una mano leggera,
    che se ti taglia neanche te ne accorgi.

    Io lo capii una volta che ci andai
    che come attrezzatura è da invidiare:
    c’ha sublimato, spirito e pecette,
    che neanche in una sala operatoria.

    Ti chiede scusa ogni volta che ti taglia;
    ma quello che ti fa un po’ meraviglia,
    c’ha un gatto più grasso di una quaglia:
    sta sempre a miagolare sotto la sedia.

    Gli chiese uno mentre veniva rasato:
    cosa vuole ‘sto gatto che sta a fare questa lagna?
    –Questo,- disse, – c’è avvezzo, non ci fare caso,
    se cadono i ritagli se li mangia.

  3. S.q.a.p.d.Irnerio

    Credo che nel testo in dialetto la parola “meraviglia” sia un errore del trascrittore.
    Forse la parola dialettale può essere “meraveja” o “maraveja”. (Per i puristi)

  4. Sì, è questo che intendo. Così, costringi chi ti legge a cliccare ogni volta sul titolo del post precedente. So che sembra una sciocchezza ma è scomodo e anche un po’ antipatico. Ovviamente ognuno gestisce il proprio blog come crede, ça va sans dire.

  5. Pescefuordacqua:
    Confesso che non avevo mai visto la cosa da questo punto di vista.
    La mia è stata fin dall’inizio una scelta puramente estetica sulla base del mio gusto, di un mio concetto di ordine. Nulla più.

    Però ora che me lo dici… terrò conto di questa tua indicazione. Ci penserò su, e chissà che non decida di cambiare.
    Spero che non cesserai di visitarmi per questo motivo… comunque grazie.

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