E’ iniziato settembre.
Io sto osservando il nome del mio portatile. Assomiglia al Cosmo e oggi è il suo primo anniversario. In questo anno senza inverno ha sofferto il caldo, ma ha sopportato tutto. Dovrei imparare a essere come il mio portatile.
E’ iniziato settembre. Dopo la scorsa notte, siamo sull’orlo di una svolta. Si rompe tutto oppure si riaggiusta. Laura ha letto il messaggio. Lo so perché c’è la ricevuta di ritorno attiva. Non ha risposto.
Mi sento ancora preso in giro e ora come ora non credo che andrò alle prove. Ho la sensazione di essere svuotato. Un sacco senza nulla dentro. Tutta questa storia è una galleria di insensatezze. Perfino il giorno e la notte hanno perso di significato.
Ho voglia di sparire per un pò dalla faccia della Terra, di prendermi una pausa dalla vita. Se solo ripenso al tempo che ho sprecato aspettando i comodi di una stronza mi viene voglia di urlare. Avrei chiuso ogni questione subito, potendone parlare e chiarire le cose. Forse avrei usato un po’ di sana autoironia per riderne insieme. Avremmo salvato un’amicizia. E invece no.
***
Poco distante dal mio ufficio c’è un incrocio con una rotonda. Alla rotonda convergono quattro strade. Una è quella da cui provengo io, uscendo dal lavoro. A destra si va verso casa di Serena, che abita non lontano. Proseguendo diritto, si va verso la campagna, dove c’è il piccolo cimitero del paese. A sinistra, invece, si scende per due-trecento metri fino a un incrocio più grande. Là c’è un semaforo. Di solito prendo a destra per andare a casa. Oggi sono andato a sinistra, verso il centro città. Avevo voglia di camminare e distrarmi in qualche modo.
Dopo meno di cento metri, alla fermata del bus, c’era Serena in attesa. Aveva i capelli legati e gli occhiali scuri. Aveva una maglietta rossa.
L’istinto mi ha gridato di fermarmi, ma la corsia era stretta e il traffico davanti, dietro e di fianco non me l’ha permesso.
Superato il punto, ho guardato nel retrovisore. Nessuna traccia dell’autobus. Ho calcolato di avere abbastanza tempo. Ho percorso ancora un paio di cantinaia di metri prima di trovare il punto adatto a invertire la marcia. Ho trasgredito al codice della strada, ma avevo un’ottima ragione.
Ho accelerato vigorosamente. L’occhio stava più sul marciapiede sinistro che sulla strada davanti. Ho riconosciuto la fermata appena prima che fosse coperta dall’autobus. Non mi perdo d’animo. Guardo cosa c’è scritto sopra. È il ventuno. Non so dove vada. Accelero, ma è impossibile ripetere l’inversione.
Follemente, torno al primo semaforo, poi su fino alla rotonda e infine torno indietro per una via alternativa con l’idea di immettermi sulla strada principale un incrocio più avanti rispetto alla fermata. Meno di un minuto dopo, l’autobus ventuno è dietro di me. Siamo fermi al semaforo. Ho una piccola esultanza per il mio talento di guidatore. Forse sarei bravo come tassista.
Adesso però non so se andrà dritto oppure a destra. Ho ancora pochi secondi per spostarmi di corsia. Pochi metri e sarò costretto a proseguire diritto.
L’autobus si sta avvicinando. Si sposta a destra. La mia corsia è lentissima. Lui passa, poi accendo la freccia e mi piazzo dietro. Il finestrone posteriore è davanti a me. Giro a destra verso l’ospedale appresso al bus. Dopo cento metri, però, imbocca una corsia preferenziale. Devo prendere un’altra strada, fare un giro assai più ampio e ipotesi sulla sua direzione.
Lo perdo. Arrivo in una zona dove potrebbe passare e parcheggio. Poi entro a piedi nella ZTL e arrivo alla fermata del ventuno. È appena passato.
***
Volevo andare in centro. Adesso ci sono. Mentre cammino cerco la sua maglietta rossa. Stava andando al lavoro, di certo non è qui che passeggia, ma non posso trattenere gli occhi. Non ho più fame. Dopo un’ora di passeggio senza meta, torno al lavoro.

