È una vera mattinata invernale, con la glassa dura d’acqua gelata sulle auto e la grattatina sul parabrezza prima di andare al lavoro. Per strada ho notato chiazze chiare di sali antigelo. C’è il sole, ma non scalda.
Parcheggio come al solito distante dall’ufficio, così faccio due passi in centro ed evito ogni rischio di divieto di sosta. Giro l’angolo e mi trovo sulla strada dove sta il cinema. Qualcosa di giallo si fa notare per terra già da qui. Mi avvicino e come il morso alla madeleine di Proust, il dorso di una carta da gioco incompleta mi riporta a quasi venticinque anni fa.
Questa carta ha il dorso giallo con decorazioni minimali – cerchi e linee – rosse. Al centro, l’effigie inconfondibile di Topolino. Questa carta è tagliata di netto: all’angolo ne manca un pezzo consistente. Quasi un quarto. Ma la riconosco. È di quando io leggevo Topolino, da bambino. Ne ero anche abbonato. Qualche volta c’erano allegati dei gadget. Il mazzo di carte me lo ricordo. Fu uno dei più graditi.
Ho lottato contro la tentazione di raccogliere quel frammento d’infanzia altrui. L’ho lasciato dove si trovava. Non l’ho nemmeno voltato per vedere che carta fosse: Un sette di fiori, un quattro di cuori o un due di picche? Qualcuno ha conservato per così tanti anni quella carta? Oppure l’ha dimenticata nel fondo di un vecchio cassetto che oggi è stato finalmente ripulito? E le altre carte che destino hanno avuto?
Per ognuna di queste domande si potrebbe raccontare una storia.
Erano i primi anni ottanta, prima dell’85. Quasi tutti i giorni li passavo da Ilario, che abitava di fronte, e spesso c’era anche Massimiliano. Da Ilario c’era l’Atari, una rivoluzionaria console per i videogiochi che oggi sarebbe un reperto da museo. Giocavamo a Pong, a Defender e poi arrivò perfino Grand Prix. A casa di Lallo c’era anche una terrazza grande, con un tavolino e le sedie di plastica dove poter stare quando non si andava in giro.
In quel tempo si poteva ancora giocare a pallone in strada. Si andava nel piazzale dietro la chiesa. Lì vicino abitava Enzo. In realtà lui si chiamava Donato, ma per qualche motivo lo chiamavano tutti Enzo. A casa di Enzo sono andato poche volte, era molto vecchia, per quello che ricordo. Enzo era fortissimo a “fontana”: facevamo cadere a turno una figurina dal tavolo. Quando riuscivi a coprire con la tua le figurine già a terra, le vincevi tutte. E poi daccapo.
Venivano a giocare a pallone anche Gaetano, mio compagno di scuola e l’altro Gaetano, più piccolo, ma che tutti volevano in squadra perché era fortissimo. È curioso che tra i due quello che ha sfiorato il calcio profesisonistico sia stato l’altro, il mio compagno, quello meno bravo.
Non sempre avevamo un pallone vero. Spesso qualcuno portava il Super Santos rosso mattone. A volte ci si arrangiava con alcune buste di plastica che venivano annodate tra loro fino ad assumere una dimensione sufficiente e una forma abbastanza sferica. Non rimbalzava granché, ma a noi bastava che rotolasse. Le porte erano segnate con qualunque cosa fosse disponibile: cappotti, vestiti, sassi, cassette di frutta. Non mi ricordo nemmeno i nomi di quei compagni di gioco, forse nemmeno li ho mai saputi.
Quel piazzale, l’ultima volta che l’ho visto, era diventato un parcheggio pieno di automobili. A me sembrava enorme, tanti anni fa.
Il tempo, la distanza, il non vedersi né sentirsi per anni, i ricordi si sono sfilacciati fino a sbiadire quasi del tutto. È quasi incredibile che alcune di quelle amicizie siano sopravvissute per tutti questi anni, come se appartenessero ad un altro ordine di cose, ad una dimensione in cui tutto è immutabile. E confortevole.

Le carte da gioco di Topolino… quanti ricordi. Ci giocavo sempre con la mia vicina di casa (le carte erano sue). Poi un giorno è partita anche Lei per il Nord…
C’è materiale per un racconto: lo spunto è molto molto interessante.
in effetti sono andato oltre… i ricordi stanno affastellandosi gli uni sugli altri, e risalendo ancora più indietro con gli anni.
grazie per il voto!
Perchè non ci scrivi un monologo teatrale?
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