Ubuntu

Per secoli si è parlato dell’Africa come di un continente non civilizzato, il “Continente Nero”, dove la cultura è rimasta ad uno stadio “inferiore” rispetto al nostro Occidente. E questa è ancora la visuale largamente più comune con cui si guarda agli Africani ed alle tradizioni dei loro popoli. Ma siamo certi che corrisponda alla realtà?

Durante l’Heritage Day, festa nazionale sudafricana che si tiene ogni anno in settembre, il presidente Thabo Mbeki ha parlato delle diverse componenti del tessuto sociale del Sud Africa, sottolineando che nonostante le differenze, emergono valori che legano insieme le comunità ed assicurano la coesione sociale. Questi valori guidano i membri ad agire in modo solidale tra loro, in un’etica che pone a suo fondamento il raggiungimento del bene comune. Le comunità Afrikaner, indiane, ebree, ha proseguito Mbeki, condividono tutte un sistema di valori che s’identifica nello spirito di Ubuntu. “Noi siamo fortunati” – ha detto – “che ci siano ancora uomini e donne normali nel nostro paese, i quali quotidianamente creano e conservano un’eredità, una memoria comune, lasciando una traccia, un racconto e ponendo in queste ciotole di storia, un futuro per tutta la nostra gente guidata dalla visione umanitaria dell’Ubuntu.

La parola Ubuntu ha origine nelle lingue di stirpe bantu, diffuse in tutta l’Africa centrale e meridionale. Rappresenta un concetto etico tradizionale comune a tutta l’Africa sub-Sahariana concernente le relazioni tra le persone.
La civiltà bantu è la più importante del continente e raggiunse la sua massima fioritura durante l’undicesimo secolo, quando era espressione del più grande impero dell’intero emisfero australe. Oggi più di quattrocento etnie, ovvero i due terzi dell’intera popolazione africana, discendono da essa, ovvero ne condividono tratti culturali e linguistici.

Il significato del concetto identificato dalla parola Ubuntu non ha una traduzione esatta in una lingua occidentale. Spesso il senso viene descritto come “troppo bello per essere tradotto”. Una definizione potrebbe essere “il legame universale che unisce tutta l’umanità”, ma non è tutto. Ubuntu è “l’umanità attraverso le persone”, o “umanità verso gli altri”; è “io sono in quanto gli altri sono”, in quanto “noi siamo”; “io sono quel che sono per mezzo dell’umanità”, e così via… è quasi più facile sentirlo che spiegarlo.

Nella tradizione indiana vi è una frase in lingua sanscrita, “Vasudeva Kutumbakam”, utilizzata come mantra, che possiede un certo grado di analogia, e significa all’incirca “il mondo intero in una sola famiglia”.

L’arcivescovo Desmond Tutu, Nobel per la pace per il suo impegno contro l’apartheid, poi alla guida della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sud Africa, spiegò nel 1999 che “Una persona con Ubuntu è aperta e disponibile agli altri, solidale con gli altri, non dubita che gli altri siano validi e buoni, perché ha quella sicurezza che deriva dal sapere di appartenere ad un tutto più grande, e che siamo feriti quando gli altri sono umiliati o feriti, torturati o oppressi.” In altri termini il concetto in discussione definisce l’individuo in funzione delle sue molteplici relazioni positive con gli altri.

Nelson Mandela, altro Nobel per la pace, uomo che non ha bisogno di essere presentato, spiega il significato della parola Ubuntu nel breve filmato che è visibile qui.
Lo stesso concetto è illustrato nel recente film “In my Country”.

La massima zulu “umuntu ngumuntu ngabantu” (“una persona è un tramite per mezzo delle altre”) che apparentemente non presenta connotazioni religiose, nel contesto culturale Africano suggerisce in realtà che la persona diventa tale solo comportandosi con il resto dell’umanità in modo conforme al rispetto degli antenati e in loro venerazione. Chi si comporta secondo i dettami spirituali intrinseci al principio di ubuntu durante la propria vita, potrà raggiungere, nella morte, l’unità con quelli che sono ancora vivi.

In lingua shona, parlata soprattutto in Zimbabwe, lo stesso concetto è espresso dalla parola “unhu”.
Ed esiste un detto simile a quello Zulu: “munhu munhu nevanhu”.

Ubuntu è uno dei principi fondamentali della nuova repubblica del Sud Africa, ed è connesso al giorno d’oggi con l’idea di una sorta di Rinascimento Africano.
Un primo tentativo in questo senso può essere considerato quello di Julius Nyerere, primo presidente della Tanzania indipendente. Il 5 febbraio 1967 Nyerere pubblicò un documento, la Dichiarazione di Arusha, in cui descriveva i principi generali cui avrebbe dovuto ispirarsi la politica di sviluppo economico e sociale del paese.
Era in effetti la descrizione della Ujamaa, una particolare visione africana del socialismo. In essa si identifica la grandezza di una nazione con il benessere percepito dai suoi cittadini. Come conseguenza, la ricerca del bene e della ricchezza personale non hanno alcun valore di fronte alla dignità umana, e finiscono in secondo piano rispetto all’uguaglianza sociale.

Nyerere proponeva questi principi come modello africano per lo sviluppo. La parola Ujmaa, in lingua swahili, indica la “famiglia estesa”, un concetto di comunità molto vicino a quello di ubuntu. Un principio basilare è quello secondo cui una persona diviene ciò che è attraverso la comunità. Quindi, nell’ujamaa ogni individuo è al servizio degli altri, la cooperazione e l’avanzamento collettivo fanno parte della modo di vivere di ogni individuo.
L’inasprimento dell’ideologia della pianificazione, la svolta autoritaria del sistema, la crisi petrolifera e l’aumento dei prezzi sui mercati internazionali furono alcune delle cause del fallimento di un tale progetto. Ma soprattutto il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, cessarono di garantire il loro supporto economico, subordinandolo all’adozione di misure di carattere capitalistico. In sostanza l’occidente ricco volle ‘normalizzare’ un Paese africano che stava trovando la sua strada per lo sviluppo indipendente, e che costituiva per esso un pericoloso esempio di emancipazione, da estirpare immediatamente.

Come si vede, l’Africa ha moltissimo da insegnare al mondo.
L’immensa ricchezza tradizionale fatta di solidarietà umana, rituali, capacità di sacrificio per il bene comune potrebbero essere un balsamo per gran parte dei mali della nostra società occidentale. Una sola parola, che le lingue europee non sanno nemmeno tradurre, ubuntu, il credere in un legame universale tra tutti gli esseri umani, ci parla di conciliazione, verità, condivisione, rispetto dei sentimenti e valorizzazione delle differenze. Quanto basterebbe per guardare al futuro con più speranza.

La tradizione africana, insomma, può rappresentare un modello cui ispirarsi per il futuro, a patto che tale futuro cominci da oggi stesso. L’etica del “motho ke motho ka batho” (“una persona è una persona attraverso le persone”) è quella che può rendere la vita su questo pianeta migliore.

E’ soltanto il sogno di un pazzo? Può anche essere. Ma non sono l’unico a sognarlo (il riferimento Lennoniano non è casuale).
In un recente articolo dell’ Harvard Business Review, la nozione di “via Africana” intesa in questo senso, è stata descritta come un ingrediente essenziale nella pratica manageriale moderna. E chissà che non sia un inizio.

D’altronde, come è opinione del presidente Mbeki, il ventunesimo secolo potrebbe davvero essere “il secolo africano”.

3 commenti su “Ubuntu”

  1. Ottimo post, e ottima spiegazione del significato di Ubuntu, che ancora non mi era completamente chiaro.

    Anche io sono convinto che la via occidentale abbia, almeno parzialmente, fallito nell’obiettivo della ricerca della felicità.

    Guardo con speranza da sempre ad altre culture e civiltà che possano offrire visioni alternative che siano da spunto per nuovi modelli, ma sono molto deluso, ad esempio da come una cultura come quella orientale sembra stia inseguendo ciecamente il miraggio occidentale.

    Ora sperariamo nell’africa… o almeno in quei paesi africani che non siano già stati spremuti e devastati dal colonialismo.

  2. E: Non direi che non c’entra niente. Avrei voluto citare anche le dittature filo-occidentali africane. E quella ugandese di Idi Amin Dada ne è un esempio paradigmatico. Tra l’altro l’aggressione di Amin Dada alla Tanzania di Nyerere fu una delle cause del crollo economico del progetto Ujimaa, oltre ad aver segnato la fine del regime ugandese… Il discorso però si sarebbe fatto dispersivo e lunghissimo. Stavo scrivendo un post, non un saggio socio-politico. Ma prima o poi…

    Comunque quel film io vado a vederlo lunedì prossimo.

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