Insegna Questura

Un paio d’ore in Questura: essere umani

Passare un paio d’ore in una questura può essere molto istruttivo. Vi si trovano riuniti diversissimi tipi umani.

Il poliziotto che mi ha accolto all’ingresso sembrava molto giovane. Era magro e alto, mi ricordava il signor Bonaventura dei vecchi fumetti, però con la divisa. Ha voluto che depositassi gli oggetti metallici in un canestro di plastica e ha preso la mia borsa con il computer. Io sono passato sotto il rilevatore megnetico, lui ha guardato nella borsa e me l’ha restituita.

Sono andato a sedermi per aspettare il mio turno e ho osservato le altre persone in attesa. Ero l’unico a indossare una camicia.
C’era un omone con la maglietta arancio e i jeans sbiaditi che una volta forse erano stati neri. Il suo aspetto disordinato mi faceva pensare che fosse lì per qualche motivo poco piacevole. La sua espressione però mi sembrava incerta e impacciata. Il modo in cui reggeva in mano dei fogli pieghati in quattro mi dava la stessa impressione. A suo modo era buffo.

Seduto accanto a lui e di fronte a me c’era un ragazzo dall’età non definibile. Mi era parso giovanissimo, a prima vista. Dalla corporatura minuta e magrissimo, l’avevo visto camminare come una Torredipisa, oscillante. Anche il modo in cui articolava, strascicando, i suoni aveva qualcosa di instabile, come se potesse cadere da un momento all’altro.

Alle mie spalle c’era la vetrata della sala di controllo. Dentro, due agenti stavano di fronte a quattro monitor di computer.
Ogni tanto qualcuno passava dall’ingresso e ci raggiungeva. Erano quansi sempre stranieri, o almeno così pareva. Portavano i documenti ripiegati allo stesso modo che mostravano una fototessera appiccicata all’esterno. Il nuovo arrivato veniva fatto entrare nella saletta con i monitor, gli agenti applicavano un timbro, lui metteva una firma e andava via. Noi invece attendevamo di entrare in una porta in fondo al corridoio a destra.

A un certo punto è entrato un ragazzo con la pelle scura, con il solito documento piegato e la fototessera all’esterno. Una agente gli dice di attendere un attimo prima di entrare nella sala dei monitor, allora lui si siede vicino a Torredipisa, che adesso non mi pareva più tanto giovane. Questo si rivolge al nuovo vicino di posto e gli porge il suo telefono. Gli chiede il favore di scrivere per lui un punto interrogativo. Sta componendo un messaggio, ma sembra avere problemi di vista (“ché io non lo vedo bene…”, dice). L’altro l’aiuta e subito dopo lo chiamano dentro, una firma e va via.

Arriva un uomo, evidentemente infastidito alla vista di noi esseri umani in attesa. Alto, circa quarantenne, vestito bluscuro, cartella di pelle e cravatta intonata coi calzini. Parla con un poliziotto con le mostrine luccicanti sulle spalle. Gli dà del tu. Parlano di tre arresti, di autorizzazione del magistrato, di refurtiva. Forse è un avvocato. Comunque, alla fine, deve sedersi anche lui. Ma sulla sedia libera più lontana da noi.

Entrano anche tre donne. Il modo di vestire e la lingua che parlano mi fanno pensare che siano Rom. Con loro ci sono quattro bambini. Le donne mostravano un’età di circa sessanta, quaranta e venti anni. Il bambino più grande poteva avere undici o dodici anni, mentre i due più rumorosi credo avessero tra i quattro e i sei anni. La ragazza di vent’anni, che teneva in braccio un bambino di pochi mesi, si è seduta vicino a me, chiedendomi scusa per le gambette del bimbo che mi avevano appena sfiorato. Le ho sorriso sussurrandole “di nulla”.

Nel frattempo era già arrivato il turno del tizio arancione, che era entrato nell’ufficio in fondo a destra e ne era appena uscito. L’Avvocato, fregandosene di rispettare turni e file, era scattato per entrare scatenando le proteste di Torredipisa che l’ha chiamato saltacazzo.
Una delle donne, quella di età media, si è rivolta a tutti scusandosi del suo italiano non perfetto e chiedendo se potevano entrare subito, dovendo solo far firmare dei documenti. Io le ho detto di sì, ché non avevo fretta. Torredipisa ha preso a oscillare pericolosamente, forse è così che riflette, ha chiesto a un agente se davvero le donne avrebbero fatto in fretta, poi ha acconsentito.

Finalmente sono entrati loro: gli abbronzati. Una coppia di signori dal colorito artificiale, l’atteggiamento superiore e la rumorosità oscena. Uno dei due sta urlando al telefono raccontando il furto con sfondamento del finestrino appena subito:
“…Non ho mai lasciato nulla sul sedile, per una volta, una sola volta che lascio il borsello per due ore, per una partita a carte al bar… metto sempre la macchina a portata di vista, per una volta che non c’era posto… dentro c’erano documenti, portafogli e il secondo cellulare… le carte di credito sono tutte bloccate …e gli assegni…”
Ha continuato a elencare le ricchezze contenute nel SUV, continuando a camminare per la sala, spiegando quanto fossero di poca importanza. Parlava come scosso da singulti, tanto che almeno un paio di volte ho creduto che stesse piangendo. Si è interrotto per fare un’altra telefonata. L’ho sentito parlare con il suo assicuratore. Gli ha proposto di stipulare una polizza furto per l’auto e denunciare l’evento dopo due giorni, in modo da prendere i soldi dall’assicurazione.
Non avevo mai visto qualcuno proporre un reato ad alta voce mentre si trova in Questura. L’assicuratore ha rifiutato e l’abbronzato ha sottolineato la cosa con una bestemmia.

Un’infermiera di grandi dimensioni accompagnata da un uomo ha preso posto tra noi. Non ha mai smesso di parlare. Abbiamo saputo tutti che quello con lei era il marito, che al mattino in ospedale aveva denunciato il furto dei documenti, che li hanno ritrovati due ore dopo, sempre in ospedale, che forse le erano semplicemente caduti e che è stata convocata per ritirarli.
Alla fine del racconto, le tre donne di prima avevano già finito con i loro documenti. Prima di andare via, quella che mi aveva chiesto di passare avanti è tornata indietro per ringraziarmi. Torredipisa ha detto: “Pure io l’ho fatta passare, però.” Poi è entrato dall’ispettore in fondo a destra.

La signora Abbronzati ha osservato in silenzio le tre donne che uscivano con i documenti in mano, poi, ormai fuori portata d’orecchio ha esclamato: “…E hanno la carta d’identità italiana! La carta d’identità italiana!”
Non ho avuto il tempo di mandarla a fare in culo. Il signor Abbronzato si è subito lanciato in uno sproloquio razzista sulla presenza di stranieri, l’invasione, il pericolo, la criminalità eccetera. Secondo lui sarebbe la causa di tutti i problemi del mondo.

Il signor Abbronzato ha raccontato della sua aziendina, dell’Audi nuova nuova che era stata appena “violentata” (sic) da un ignoto – sicuramente straniero – della casetta in montagna e altre simili amenità. Ha concluso la sua arringa affermando con assoluta convinzione di esser pronto a farsi giustizia da solo.
I poliziotti si sono guardati, la signora Abbronzata gli ha fatto notare che urlare minacce di morte non è la cosa migliore da fare in questura. Poi gli ha dato ragione.
Ho faticato a non intervenire. Avrei finito per litigare con un simile stronzo razzista. E trovandomi in una Questura, le cose avrebbero potuto degenerare.

Al festival del razzista ignorante ha voluto partecipare anche l’infermiera, la quale ha dichiarato di essere certa che: “…ora ci sono tante nuove forme tumorali, con tutti questi stranieri…” denunciando in questo modo un grave problema di scarsa preparazione nel personale ospedaliero veronese.

Il signor Abbronzato, confortato dal sostegno, ha ripreso vigore parlando degli assegni del suo libretto: “io li ho bloccati, ma chissà quanti giri faranno in tutta Italia… vanno a Napoli… nel Sud, e poi gireranno l’italia…”. Così facendo mi ha confermato di aver di fronte il classico imprenditore veronese razzista, che prima tenta pubblicamente una truffa alle assicurazioni, poi accusa gli altri di commettere reati.

***

Avrei finito sicuramente per dire qualcosa di sgradevole a quella feccia disgustosa, se non fosse arrivato il mio turno, dopo Torredipisa, di entrare dall’ispettore.
Se qualcuno dovesse pensare che il finestrino rotto e il furto possano giustificare uno sfogo di quel genere, avrebbe torto marcio. Cosa farei io se mi capitasse la stessa cosa? Non come lui. Ne sono assolutamente certo, perché ero in Questura esattamente per lo stesso motivo. Avevo appena subito un furto in auto con finestrino sfondato.
Non provo alcuna rabbia, nessun risentimento. La radio si ricompra e il vetro si sostituisce. M’infastidisce, ovviamente, quello che è successo, ma mettersi a sbavare odio verso persone che non conosco è da squilibrati. A criminali come questi due Abbronzati o all’infermiera del tutto ignorante in medicina non dovrebbe essere permesso avere figli.
Perché finirebbero per diventare altrettanto squilibrati.

***

I miei genitori sono stati migliori.
Ho trovato il vetro rotto e il furto avvenuto all’uscita dal lavoro, in pieno centro città, a Verona, nei pressi di una caserma dell’esercito. Prima di andare in Questura, ho avvisato a casa dei miei, perché dovevo andare a cena da loro, che avrei fatto tardi. Ho spiegato a mio padre cosa fosse successo. Lui ha commentato: “Sono persone disperate, per arrivare a questo… per qualche spicciolo, per la droga…”
Qui c’è tutta la distanza tra noi esseri umani e i razzisti.

24 commenti su “Un paio d’ore in Questura: essere umani”

  1. sei fortunato ad avere un padre intelligente ed umano….ed è bello sentire che c’è ancora qualcuno che ragiona…..pare che oggi sia diventato sempre più raro. ovviamente complimenti per l’autocontrollo, io questa gente presuntuosa, razzista, poco intelligente non la sopporto più. Gente che ha avuto genitori, nonni, zii emigrati in svizzera, in belgio, in germania, in america, ovunque, per cercare lavoro, e alcuni come purtroppo è ovvio erano anche delinquenti, mafiosi e simili, e altri erano brava gente che aveva bisogno di guadagnare, e ora si permettono di essere razzisti nei confronti di chi viene da noi esattamente nelle stesse condizioni….anzi, i più razzisti vengono proprio dalle zone dalle quali alla fine dell’ ‘800 e fino a metà del ‘900 si emigrava all’estero (meridione e nord est)

  2. animapunk:
    Finché ho abitato in Campania, ho considerato il razzismo come qualcosa di ignobile, ma tutto sommato lontano. Dopo il mio trasferimento in Veneto, all’inizio dell’adolescenza, ho dovuto scoprire, a mie spese, che la questione mi era molto più vicina di quanto avessi potuto immaginare.
    Per questo non posso essere d’accordo nell’avvicinare meridione e nord-est in questo senso.

    Penso che la causa sia invece da ricercare nel rapido sviluppo economico ed il conseguente attaccamento ai beni materiali come simbolo del proprio ‘successo’ esistenziale. Così l’umanità delle popolazioni contadine si è persa negli orologi d’oro al polso, nelle ville ed in un tenore di vita altissimo.

    Sembra che curiosamente siano proprio coloro che hanno meno problemi di tipo economico ad esprimere il volto peggiore della propria ignoranza. O forse dovrei dire paura… paura di ricordare da dove si viene, paura che il mondo continui a girare e che la ricchezza possa andar via così come è arrivata…

    Ma questi sono solo pensieri a ruota libera, senza filtro, e come tali vanno presi.

    caramella-fondente:
    Ero in questura proprio per la denuncia, però il furto non è stato soltanto tentato, e l’autoradio non c’è più. E mi stupisco un po’ per il fatto di non essere stato turbato dall’accaduto. Tornando a casa, col vento in faccia per il finestrino rotto, canticchiavo la musica che sono solito ascoltare in macchina, ridendo ogni tanto per la novità della situazione.

  3. generalizzare non è giusto, ovviamente, ma io parlo per esperienza personale, gente del sud che conoscevo bene e che era profondamente razzista, e aveva avuto parenti emigrati all’estero, e anche ricordando cose lette sul caporalato e su come gli emigranti extracomunitari vengono trattati a sud, sul nord est siamo d’accordo. Non tiravo in ballo le cause di questo fenomeno, esprimevo solo il mio disagio e sconforto per il fatto che proprio chi ha provato sulla pelle dei suoi familiari il dolore dell’emigrazione non abbia comprensione verso chi emigra oggi. Sulle cause, condivido i tuoi pensieri….

  4. ciao, sul mio blog è in corso una discussione simile, te lo sai come si fa a mettere un ping? mi piacerebbe che le discussioni si intrecciassero. che ne pensi? il post si chiama “opinioni personali” e la discussione si sta facendo “rovente”…
    se sei capace ci pensi tu?
    ciao!

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  6. Pingback: luxemburg (rosa)

  7. Ciao! il ping ha funzionato.. io “vengo” dal blog di Lucia 🙂
    Complimenti per l’autocontrollo, bravo! forse a me sarebbe scappato qualche commento acido agli abbronzati.
    A me hanno aperto la macchina l’altro mese, senza rompere il vetro, forzando la serratura, e la cosa assurda è che mi hanno portato via una giacca di cotone che aveva 10 anni buoni (infatti mi ci ero quasi affezionata), una “stecca” di fazzoletti di carta e da sotto il sedile (l’autoradio ha rischiato ma non è stata trovata) il vetril!!! (lo tenevo per pulire il vetro interno, che non so perché mi si sporca sempre tantissimo..). C’era anche una sciarpina di cotone ma l’hanno lasciata lì. Quando l’ho raccontato in giro, tanti hanno detto “sarà stato un lavavetri” o uno zingaro..io sinceramente ho pensato a una bravata

  8. Peccato, avevo preparato una vecchia poesiola in dialetto veronese dedicata a San Zeno che avevo imparato a memoria ai tempi in cui ero militare alla FTASE. Questa:

    “SAN ZEN CHE RIDE”

    I putei che gà Minico Bardassa
    par general, con sassi e con bastoni,
    dopo aver svalisà mesa la piassa
    tra l’assalto a la cesa e ai so leoni.

    I la raspa, i la rompe, i la rovina
    senza criterio e senza carità.
    Ma più che i la maltrata e i l’asassina,
    più stramba e fina, più bela i la fa.

    E la cesa parlando al su moroso
    campanil che s’imbestia in fondo al prà,
    par che la diga “no essar geloso,
    lassa che i zuga, dopo i morirà.

    Ho visto i pari de so pari i noni
    de so noni zugar sempre cussì,
    sta pora gente m’ha magna a boconi,
    ma el toco grando el t’è rimasto a ti.

    E’ passadi paroni con paroni,
    s’è cambia cento volte ‘sta città.
    Vecio no brontolar, dormi i to soni,
    pensa, mile ani, e semo ancora qua”.

    (L’ho scritta a memoria. Purtroppo non ricordo chi fosse l’autore. Carina, vero?)

  9. Non conosco la storia. Ho fatto qualche ricerca, ma fino ad ora ho concluso soltanto che probabilmente ‘Moncini’ non è il vero nome.
    Ne ho trovato diverse versioni: Mancini, Mongini e Lancini. Per il resto nulla più che la trascrizione della telefonata che hai pubblicato nel tuo post.

    Se dovessi trovare qualche altra informazione la renderò pubblica, ovviamente.

  10. Pingback: Le autoradio le acquisto a coppie « VirQuam (chiamatemi VQ)

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