Era un lunedì di metà maggio. Il capo mi chiama nel suo ufficio e discutiamo dello sviluppo del software, come avviene spesso. Ci sono stati certamente dei ritardi nel lavoro, ma non dovuti alla mia inefficienza.
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Ho avuto un guasto sul disco del mio portatile. La corruzione della partizione NTFS mi ha bloccato per tre giorni durante i quali ho dovuto recuperare il lavoro già svolto (non c’era un backup) e ripristinare il funzionamento del computer.
Il fatto è che lui ancora non ha acquistato un computer per la mia postazione, né un server, nonostante le promesse e la necessità di mettere in piedi un sistema centralizzato per il software che sto sviluppando. E allora sono costretto a lavorare con il mio materiale informatico.
Ho smontato il disco del portatile, l’ho collegato tramite un adattatore USB al PC fisso e ho provato ad accedere con gli strumenti più sofisticati in mio possesso, senza effetti. Alla fine, il buon vecchio CHKDSK del DOS ha funzionato. Ha dovuto lavorare ininterrottamente per oltre 22 ore, ma mi ha recuperato tutto il contenuto della partizione ricostruendo gli indici e gli attributi dei file.
Rimontato sul portatile, il disco non ha più mostrato problemi.
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Era un lunedì di metà maggio e io stavo spiegando al capo il motivo di quei tre giorni di lavoro a casa anziché in ufficio. Durante la discussione gli chiedo del mio contratto di lavoro, che aveva promesso otto mesi fa ma ancora non si vede.
“Ce l’ho qui il tuo contratto”, dice indicando lo schermo del computer, “ma non sono ancora certo che tu sia indispensabile, qui dentro.”
Al termine della discussione torno al mio posto, finisco un lavoro urgente, ed alla fine della giornata vado via. Non gli ho mostrato il minimo segno della furia che avevo in testa. Della offesa che mi aveva sputato in faccia in quel modo. Un istante dopo essere uscito dal suo ufficio avevo deciso che avrei cercato lavoro altrove.
La mattina dopo parcheggio al solito posto, poi mi fermo in macchina. Le parole del giorno prima erano scolpite in testa. Non avevo alcuna voglia di tornare da quello stronzo. Mi prende in giro per otto mesi, poi mi offende in questo modo. Perché dovrei tornare lì? In base a quale accordo?
Ho comprato il giornale, cerchiato un’offerta di lavoro, sono tornato in macchina e ho telefonato.
“Il responsabile del personale non è in ufficio”, d’altronde non sono ancora le nove, “ma può inviarci il curriculum, la richiameremo”.
Si fotta quel pezzo di merda. Non ho alcun contratto? Bene, non lavoro lì. Abbiamo un accordo verbale? Lo rispetti lui, per primo. Io l’ho fatto e ne ho ottenuto offese senza motivo. All’improvviso mi sono reso conto che avevo lasciato il lavoro così, senza difficoltà né rimorsi. Stavo facendo uno sciopero da solo, senza proclamazione e senza clamore.
Guidavo, stavo andando a trovare i miei genitori. Mi serviva una connessione internet stabile per inviare una email con il mio curriculum.
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Dall’ufficio arriva la telefonata di Anna, la collega biondina. Sussurra. Mi chiede cosa sia successo. Il capo le ha detto qualcosa, mezze notizie, mi sta chiamando di nascosto per saperne di più. Le spiego sommariamente la situazione e aggiungo che: “Senza contratto io non torno in ufficio”.
Nel pomeriggio mi richiama. Stavolta, lo dice subito, è per conto del capo: “Mi ha detto di chiederti spiegazioni sul fatto che non sei venuto in ufficio. Cosa gli dico?”
“Digli solo che sto valutando altre offerte.”
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Passa tutta la settimana lavorativa a informarmi sulle possibilità di impiego altrove. Ho valutato l’ammontare dei miei risparmi: avrei dovuto rimandare alcune spese, pagare le bollette in ritardo e mangiar poco, ma potevo farcela a superare la contingenza.
Arriviamo a venerdì. Al mattino sono in centro. Incontro Anna che sta facendo spese con l’altra Anna, quella dell’Università cui sto assai simpatico: ha preso un giorno di ferie. In ufficio c’erano rimasti solo gli ultimi arrivati. Quelli più inesperti. Chissà il caos.
Poco prima di pranzo mi chiama il capo – ex capo – e dice che vuole vedermi: “per definire”.
“Definire cosa?” Chiedo io, fingendo di non aver capito.
“Eh, mica puoi chiudere così…”
“Non c’è niente da chiudere, infatti.”
Sto pensando al lavoro che ho fatto in questi mesi per lui: si trova tutto nel mio portatile. Però, in mancanza di un contratto scritto, è roba mia. Lo sento, al telefono, che aspetta una mia parola. Sorrido.
“Posso anche venire lunedì”, gli concedo.
“va bene lunedì.”
“A che ora?”
“Alle dieci.”
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Era un altro lunedì, dopo la metà di maggio, alle dieci del mattino. Sto discutendo con quello che già considero il mio ex-capo. Lui allude e minaccia ricorsi a non ben specificati giudici per ottenere fantomatici risarcimenti per i presunti danni che avrei causato assentandomi.
Io sono placido. Gli rappresento il fatto che senza contratto non esiste alcun accordo. Quindi non sono tenuto a essere presente. Io non lavoro lì. Poi gli spiego dettagliatamente cosa penso di lui: “Mi sono fidato di quello che hai detto, ma a quanto pare non avrei dovuto.”
Lui mi offre un contratto. Lo leggo, lo piego e dico che ci avrei dato un’occhiata. Lui vuole una risposta entro domani.
“Domani mattina ti faccio sapere.”
Esco.
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Lunedì pomeriggio mi telefona Vittorio: “Il mio capo è disponibile ad un colloquio, anche se gli ho detto che ti occupi di cose differenti.” È vero, mi occupo di cose diverse. Lo ringrazio, gli spiego la situazione e lo saluto. Ho deciso di accettare l’offerta del mio ex-capo: resterò solo finché avrò trovato un’alternativa.
Martedì telefono in ufficio e comunico la mia decisione e mercoledì torno al lavoro.

