
Nelle persone che passano per l’atrio c’è un’aria di disperazione urgente. Disperazione di orologi, cravatte, maniche gualcite, occhi rossi, stanchezza. C’è pure una sedia a rotelle, spinta in fretta verso l’uscita. Viaggiatori soli. Insieme per coincidenza, senza condivisione. Distanti. Pendolari senza gioia.
Hanno tutti la stessa faccia. Cambiano nasi, cappelli, bocche, colore e altri dettagli irrilevanti… ma sembra siano tutti parenti. La condizione che li allontana, li rende simili. La colonna sonora è un frastuono inesorabile di trolley, trascinati come una condanna da portarsi dietro. Io dal loro mondo sono escluso. Io non passo. Io attendo. Mi degnano della stessa attenzione riservata ai cestini dei rifiuti. E non mi dispiace. Osservo senza essere visto. Partecipo senza invito.
La donna dai capelli neri, lei no, non passa. Attraversa l’atrio una volta, due, si guarda attorno. Come cercando qualcosa o qualcuno. Non ha valigia, ha lo sguardo smarrito. Non parla. Tra i capelli nerissimi, qualche raro filo chiaro. Dimostra forse quarant’anni. Forse qualcuno di più: non sono bravo in queste cose.
La sua attenzione appartiene al telefono. Lo guarda e lo porta all’orecchio a più riprese. Sarà la terza telefonata che tenta senza ottenere risposta. Il vestito scuro, eleganza ordinaria, è adatto alla situazione.
Aspetta qualcuno che doveva venire a prenderla? E sta provando a chiamare chi non c’è? Cosa gli sarà successo? Cosa farà lei adesso? Come tornerà a casa? Sembra l’inizio di un film. Se lo fosse, fra poco succederebbe qualcosa.
Un paio di volte incrocio i suoi occhi, ma non sono sicuro mi abbia visto. Penso che le offrirei un passaggio, se non fossi lì ad attendere un’altra persona.
Poi dal nulla mi compare davanti un uomo d’aspetto antichissimo. Rugoso, sdentato, magro, vestito con abiti molto usati. Mi sorride, con labbra che sono una fessura verso il nulla. Gli occhi si intravvedono appena tra le pieghe della faccia. Dice qualche parola resa incomprensibile dalle gengive.
Capisco vagamente che sta chiedendo se ho qualche moneta. Lui ripete, sforzandosi di essere chiaro. Io gli rispondo di sì. Qualcosa nella sua tristezza mi suona curiosamente familiare. Intanto infilo una mano in tasca, ne tiro fuori alcune monete e gliele consegno; tutto senza guardare. Lui le riceve e mi ringrazia. Poi le osserviamo insieme. C’era un pezzo da venti centesimi, uno da dieci ed il terzo era da un euro.
Un sorriso insospettabile trasforma l’espressione di quel volto vecchissimo in quella di un bambino. Ha sussurrato due volte “un euro”, almeno credo. Alla prima gli è mancato il fiato per finire. Poi ha raccolto le forze ed ha cominciato a ripetere, forte e chiaro, nel suo dialetto: “Sei un figo! Tu sei un figo!”, col pollice alzato come chi chiede un passaggio.
Poi e si è allontanato, voltandosi due volte per sorridermi.
Io non lo so come mi sono sentito in quel momento.
La felicità vale un euro e trenta.


Venti minuti in stazione. http://t.co/f9OySKBytG